lunedì 8 ottobre 2007

Oppure no?



UN MITO? ...OPPURE NO?

tratto da
http://www.storico.org/

Da sempre il guerrigliero “cubano” ma di origine argentina, è stato descritto come una figura eroica e fortemente innovativa rispetto al tipico leader comunista. Questa descrizione corrisponde in parte al vero, il “Che” era sicuramente un personaggio meno freddo e impenetrabile dei conformistici leader comunisti tradizionali, ma molto di ciò che si dice del personaggio risulta lontano dalla realtà. Scorrendo su internet noi vediamo un gran numero di siti dedicati al personaggio, alla sua vita e ai suoi scritti. Molto raramente però leggiamo sui siti italiani quello che fu il suo primo incarico a Cuba dopo la rivoluzione, ovvero la direzione del grande carcere di La Cabana. In tale incarico il Che si distinse per la sua volontà di persecuzione nei confronti dei detenuti politici, molti dei quali passati per le armi. Degli anni della rivoluzione il giornalista inglese Paul Johnson ricorda che gli uomini di Guevara combatterono pochissimo, e nella famosa battaglia di Santa Clara, passata alla storia come la svolta definitiva della rivoluzione, i guerriglieri riportarono non più di sei vittime. Il capo guerrigliero non mancava di alcune asprezze, in un suo intervento, un anno dopo la rivoluzione, affermò: ”Nell’Esercito Ribelle si pensa che il fatto di costituire l’esercito popolare basti a porlo al di là della disciplina, e che la disciplina sia qualcosa che aveva motivo di esistere solamente nell’antico esercito e che nel nuovo non sia più necessaria. Si tratta di un’idea falsa e pericolosa”.
Negli anni Sessanta si ebbero a Cuba per esplicita ammissione governativa ventimila internati nei campi di concentramento per motivi politici, operazione pienamente avvallata dal grande rivoluzionario. Come responsabile del settore economico il Che dimostrò molta insensibilità per le necessità della gente, privilegiando come di consueto nei regimi comunisti di quegli anni, l’industria pesante e la più rigida pianificazione. Il Che non era particolarmente prodigo nei confronti dei lavoratori, si espresse contro il diritto di sciopero e a proposito del ruolo dei sindacati sostenne che: “I sindacati sono strettamente legati all’aumento della produttività e alla disciplina del lavoro, pilastri dell’edificazione del socialismo”. Tale politica non favorì lo sviluppo economico del paese, non solo molti progetti industriali e urbanistici rimasero incompleti, ma l’agricoltura venne danneggiata, e il paese altamente produttivo in questo settore, vide l’introduzione del razionamento alimentare. Dopo la rottura con il governo per la politica prudente e “realista” di Fidel Castro, intraprese la sua avventura in Congo, dove le formazioni guerrigliere erano ispirate più da finalità xenofobe che da intenti rivoluzionari. Infine raggiunse la Bolivia. Nel paese latino americano non ottenne il consenso del locale partito comunista, che in realtà si sentiva scavalcato dall’iniziativa, e non ottenne il consenso dei contadini indios che avevano ottenuto in quegli anni importanti concessioni dal governo di Paz Enstensoro, un socialdemocratico che aveva realizzato la riforma agraria in accordo con il governo degli Stati Uniti. Isolato e privo di qualsiasi piano d’azione, il piccolo gruppo di guerriglieri venne catturato e passato per le armi.
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“Un guerrigliero spietato, un burattino nelle mani di Castro”. Parla l'esule cubano Jacobo Machover, autore di una biografia critica.

«Ho scritto per fare i conti con un'illusione che io stesso ho coltivato da giovane. Ma pure per un dovere di memoria e verità verso le vittime del Che, noto ancor oggi a Cuba anche come «il macellaio della Cabaña», dal nome del carcere in cui fece fucilare almeno 180 persone in 6 mesi. Molti conoscono la verità, ma quasi nessuno vuole guardarla in faccia».

Per Jacobo Machover, uno degli intellettuali più noti della diaspora cubana in Europa, l'immagine eroica e «romantica» che tanti continuano a tramandare di Ernesto Guevara è il frutto di un'abile montatura inizialmente orchestrata dal regime dell'Avana. Machover è giunto a questa conclusione dopo aver conversato con alcuni dei compagni di ventura del Che ancor oggi in vita e sulla base di una lettura analitica di tutti gli scritti consultabili del guerrigliero.
Lei sostiene che Guevara fu una figura subordinata, contrariamente all'immagine di ribelle spesso divulgata. Perché?

«Fin dall'inizio, fu un comandante della rivoluzione cubana agli ordini di un capo supremo, Fidel Castro. Ed è stato soprattutto quest'ultimo a costruire nel tempo l'immagine ribelle del Che. Del compagno di battaglia capace di condurre azioni autonome. Ma in realtà l'unica azione autonoma possibile era il sacrificio per Fidel. Guevara lo rivela ad esempio nei suoi taccuini personali scritti in Congo, quando sottolinea di non aver osato chiedere ai propri uomini il sacrificio supremo e di dover espiare per questo la propria colpa nei confronti di Castro».

Si può parlare comunque di una reciproca influenza fra i due uomini?

«No, il Che non influì mai su Castro. Credo solo che Castro abbia sviluppato col tempo un senso di colpa nei confronti di Guevara, o quanto meno l'impressione di averlo inviato al martirio».

Come risponde a chi la accusa di un ritratto «selettivo» di Guevara al solo scopo di provocare?

«Ho cercato di considerare tutti gli aspetti del personaggio, da quelli per così dire buoni fino ai più spietati. E ho cercato di chiarire soprattutto alcune fasi della sua vita che mostrano il carattere in fondo ordinario e fragile di questa persona che ha certamente subìto un'evoluzione. In Bolivia, poco prima di essere giustiziato, Guevara ad esempio non fucilava più i suoi stessi uomini, come fece a Cuba. In Congo, invece, aveva impiegato punizioni molto dure».

Qual è il periodo nella vita di Guevara che resta meno noto?

«È quello compreso fra il 1959 e il 1965, il periodo in cui si trovò al potere a Cuba. Non è stato molto analizzato innanzitutto per via delle esecuzioni che il Che ordinò personalmente al carcere della Cabaña, ma anche per il ruolo imbarazzante come direttore della Banca nazionale. Fu un autentico disastro. Si tratta della fase direi più sinistra, perché il Che esercitò il proprio potere in modo implacabile su un popolo che gli era straniero».

Che uomo era, invece, quello giunto in Bolivia per combattere e qui scomparso nel 1967?

«Assomigliava a un avventuriero perduto, non più capace di fare un bilancio del proprio percorso. Per me, si tratta del lato positivo, più umano, del personaggio. È in Bolivia che si rese conto del proprio fallimento e in una certa misura di essere stato raggirato».

Com'è nato il mito del Che?

«Castro comprese molto presto quanto poteva ottenere dall'immagine del Che. Lui era morto il 9 ottobre e già qualche giorno più tardi la veglia funebre orchestrata dall'Avana fu un capolavoro di astuzia sul registro dell'emozione. Castro raccontò fra l'altro che il Che non si era arreso ai militari boliviani, il che non era vero».

Il mito ha però scavalcato di gran lunga le frontiere cubane. Com'è stato possibile?

«Grazie a una catena di falsificazioni. La stessa foto del Che divenuta celebre è totalmente ritoccata, costruita eliminando i personaggi e il contesto circostanti. L'operazione, nel suo complesso, ricorda tanti altri falsi eroi creati dai regimi di stampo staliniano».

Guevara resta soprattutto un simbolo del rivoluzionario. Come giudica questa fama?

«Sul piano ideologico, Guevara aveva idee abbastanza confuse. Non aderì mai pienamente alla dottrina marxista-leninista e prese in prestito certi concetti senza però maneggiarli agevolmente. Negli ultimi scritti, cercò egli stesso di contribuire al proprio mito per la posterità».

Che bilancio complessivo darebbe del personaggio?

«È possibile definirlo come un ruolo secondario in un grande film storico. Ma di questo ruolo secondario si è fatto un simbolo, anzi quasi un feticcio, che giova ancora a tanti. Non solo a Castro, ma anche a molti altri che cercano di giustificare i propri ideali. Una giustificazione anche per dire che non ci si è sbagliati del tutto e che accanto a Stalin ci furono comunque figure integre».

Una specie di nostalgia?

«Credo di sì. Vi è inoltre l'aspetto del sogno visionario. Certi giovani, dopo aver letto le mie opere, mi accusano di voler distruggere i loro sogni. Ma per noi cubani, per tutti quelli che hanno conosciuto la prigione, per tutti i bambini cubani ancor oggi costretti ogni giorno a recitare a comando il nome del Che, più che di un sogno, si tratta di un incubo».

tratto da avvenire.it

1 commento:

Apedia ha detto...

Mi piace...soprattutto perchè hai usato 'un sunto' :-). Non sono competente in materia e quindi mi rimetto all'opinione di un mio amico che si intende di 'ghevarismo'...a presto il commento.